Solidarietà e vaccinazione obbligatoria: un rapporto ambiguo e pericoloso?

di Marco Schiavi

I DIVERSI PROFILI DELLA SOLIDARIETA’

Il riferimento alla “solidarietà” nell’ambito dei trattamenti sanitari obbligatori ha acquisito col tempo un rilievo sempre maggiore.

La parola “solidarietà” evoca nell’immediato un significato positivo ed appare una sorta di muro eretto contro obiezioni che, di contro, si riferirebbero ad una concezione egoistica dell’esistenza e del ruolo sociale che ognuno di noi innegabilmente riveste. Nel contempo gli stessi confini della solidarietà sono incerti, specialmente quando, andando oltre il profilo etico e religioso, apparentemente connotato da profili di libertà e volontarietà, si intenda riconoscere alla solidarietà un profilo giuridico, diversamente caratterizzato da aspetti sanzionatori e coercitivi.

Anche i richiami alla solidarietà nelle pronunce giudiziarie che si sono occupate di vaccinazione e di vaccinazione obbligatoria in particolare, si sono nel tempo accentuati ed al riguardo basta menzionare la pronuncia del TAR Friuli Venezia Giulia (sez. I del 10 settembre 2021 n. 261) secondo la quale “ogni libertà individuale trova infatti un limite nell’adempimento dei doveri solidaristici imposti a ciascuno per il bene della comunità”.

Trattasi di affermazione che, assieme ad altre, evoca profondi interrogativi in ordine alla fonte dei doveri solidaristici, alla natura ed alla consistenza del collegamento tra i doveri in questione ed i trattamenti sanitari obbligatori e, più in generale, interroga su come tali doveri si inseriscono e si bilanciano armonicamente nel quadro dei diritti costituzionali, specie laddove il limite della solidarietà non compare, diversamente da altri, invece presenti, (“sanità e sicurezza”, per limitarsi a citare l’articolo 16 della Costituzione in ordine alla libertà di circolazione).

LA SOLIDARIETA’ COME GIUSTIFICAZIONE DEL TRATTAMENTO SANITARIO OBBLIGATORIO

Appare evidente la centralità del quesito se sia configurabile il dovere di solidarietà quale giustificazione per la sottoposizione al trattamento sanitario obbligatorio.

La tematica si colloca a livello costituzionale, riguardando l’individuazione dei presupposti che legittimano l’imposizione da parte del legislatore ordinario di un determinato trattamento sanitario obbligatorio.

Il dilemma assume questi connotati:

– la solidarietà rappresenta la giustificazione ultima, il quadro di riferimento all’interno del quale devono essere, comunque e sempre, presenti nella loro pienezza i requisiti individuati dalla tradizionale giurisprudenza della Corte costituzionale?

– la solidarietà si pone come requisito autonomo, dotato di forte e propria capacità espansiva, capace di ampliare l’area dell’obbligatorietà, erodendo, forse annullando, la consistenza degli altri requisiti?

In altri termini, sussiste il rischio, perché di ciò si tratta, che la solidarietà divenga fonte primaria dell’obbligo vaccinale nella prospettiva, con carattere giuridicamente vincolante, di protezione dei fragili, alla cui tutela nessuno potrebbe affermarsi estraneo od indifferente.

Una visione potentemente collettivistica, nell’ambito della quale la solidarietà opererebbe come una scheggia impazzita, imponendo nell’ambito dei trattamenti sanitari obbligatori obblighi di vaccinazione, sanzioni pecuniarie per il caso di inadempimento, divieti di esercitare diritti e svolgere attività libere, sino ad arrivare ad una vera e propria coercizione.

In questa prospettiva il ruolo dei diritti fondamentali riconosciuti dalla carta costituzionale si ridurrebbe progressivamente, diventando ancillari nei confronti del super-principio della solidarietà, una sorta di potente giustificazione dell’attività del legislatore statale.

Si affermerebbe una visione fortemente etica delle relazioni personali, laddove l’imposizione di sacrifici ai singoli spetterebbe allo Stato che verrebbe ad arrogarsi, con gli strumenti della prescrizione obbligatoria, dell’apparato sanzionatorio e anche della coercizione, il compito, da un lato di elevare i propri cittadini al livello eroico per il sacrificio richiesto a favore della collettività e, dall’altro, di stigmatizzare, quali egoisti e cinici da opprimere e da rieducare, anche per il loro stesso bene, coloro che tale sacrificio non intendono ossequiare.

Se poniamo mente ad alcune categorizzazioni che hanno caratterizzato gli ultimi anni è evidente come queste prospettive abbiamo avuto, almeno in parte, un principio di esecuzione.

La solidarietà è diventata pervasiva, alimentando in un indistinto coacervo diritto, morale e religione, peraltro in modo confuso e poco rispettoso dei diritti e della libertà dei singoli.

Si tratta di linee di sviluppo che nella loro piena realizzazione sono allo stato futuribili, anche in senso distopico, ma che, però, nella stagione, da poco conclusa, della vaccinazione obbligatoria, non generalizzata ma estesa ad una vasta parte della popolazione, sono affiorate in maniera evidente e consistente, generando una giustificata preoccupazione.

Linee di sviluppo che potrebbero prendere vigore anche da una lettura non rigorosa delle recenti sentenze della Corte costituzionale in tema di obbligo vaccinale, con particolare riferimento alla sentenza 14/2023, specificamente volta a delineare i tratti costituzionali della vaccinazione obbligatoria.

ARTICOLO 2 DELLA COSTITUZIONE: I DOVERI INDEROGABILI DI SOLIDARIETA’

Il riferimento alla solidarietà è espressamente contenuto nell’articolo 2 della Costituzione, il quale afferma vigorosamente che la “Repubblica…richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà economica e sociale” in capo a ciascuno, sottolineando il tratto di inderogabilità, il quale implica un profilo giuridico che si caratterizza non solo per l’imposizione del precetto, ma per la presenza della sanzione o, addirittura, della coercizione.

Occorre subito sottolineare che nell’ambito dei trattamenti sanitari la coercizione non è per nulla esclusa, come prevede la legge 833/1978 agli articoli 33 e seguenti, la quale contempla il trattamento sanitario coattivo, coercitivo, ovvero caratterizzato dall’uso della forza. E’ indubbia l’incidenza di tali trattamenti sulla libertà personale onde per cui sono assoggettati alle garanzie costituzionali, ovvero l’intervento dell’autorità giudiziaria e la previsione da parte della legge dei casi e dei modi in cui possono essere eseguiti, in conformità al dettato costituzionale di cui all’articolo 13.

Diversamente i trattamenti sanitari obbligatori di cui all’articolo 32 della Costituzione si caratterizzano per una mera obbligatorietà alla quale conseguono sanzioni che possono essere dirette, quali le sanzioni pecuniarie o indirette, in cui l’assolvimento dell’obbligo è condizione per l’esercizio di diritti ovvero, per riferirsi alle vaccinazioni di cui alla normativa Lorenzin, la sanzione pecuniaria da 100 a 500 euro e l’esclusione da asili e scuole dell’infanzia per i bambini non vaccinati.

Proprio la normativa Lorenzin, con la rinnovata enfasi posta sull’obbligo vaccinale, ha dato forza e argomentazione giuridica all‘impostazione secondo la quale il principio di solidarietà possa essere fondativo di doveri giuridici nell’ambito della salute.

L’impostazione della normativa Lorenzin è stata ripresa prevedendo, sul piano delle sanzioni dirette, la nota sanzione pecuniaria di 100 euro per gli over 50 non vaccinati e, sul piano delle sanzioni indirette, la limitazione o l’impossibilità di esercitare diritti di rango costituzionale.

Anziché valutare l’incidenza dell’obbligo vaccinale su tali diritti la Corte costituzionale (sentenza 14/2023) ha affermato, in una fase di evidente “stanchezza motivazionale”, che “l’obbligatorietà del vaccino lascia comunque al singolo la possibilità di scegliere se adempiere o sottrarsi all’obbligo, assumendosi responsabilmente, in questo secondo caso, le conseguenze previste dalla legge”, come se il legislatore fosse libero di stabilire qualunque conseguenza, su qualunque diritto incidente, a prescindere dalla necessaria e doverosa considerazione di diritti di rango costituzionali coinvolti.

Proprio sul presupposto che non si sia trattato di coercizione, si è ritenuto che l’imposizione della vaccinazione obbligatoria non costituiva una limitazione della libertà personale, con il necessario rispetto della riserva di legge assoluta di cui all’articolo 13 della Costituzione, ma che rientrasse nell’articolo 32 della Costituzione il quale prevede una riserva di legge relativa che ben tollera il mancato intervento dell’autorità giurisdizionale e l’integrazione della normativa da parte dell’autorità amministrativa (le note circolari del Ministero della Salute).

Ma in questa sede non si intende rimarcare l’infondatezza di tali argomentazioni e il sostanziale annichilimento del nucleo essenziale di fondamentali diritti costituzionali (lavoro, istruzione, educazione, proprietà privata, movimento, libera manifestazione del pensiero, libertà religiosa), bensì sottolineare l’evidente efficacia espansiva del principio di solidarietà, avulso dal quadro costituzionale e dotato di vita autonoma, nonchè, in una qualche misura, indifferente ai diritti essi pure qualificati “riconosciuti ed inviolabili” dalla stesso articolo 2 della Costituzione.

Si è, pertanto, affermato nella dottrina giuridica che “il principio di solidarietà…giustifica l’imposizione di doveri individuali”, che sussiste “prevalenza della salute collettiva su quella individuale, quale adempimento del dovere inderogabile di solidarietà sociale”, pervenendo all’esaltazione della “nozione di solidarietà sociale da assumere a principio regolatore della coesistenza pacifica e ragionata dei diritti e doveri dei cittadini”, ovvero il super-principio.

Appare evidente come l’approdo finale di tale prospettazione condurrebbe alla totale subordinazione dei diritti costituzionali rispetto ad una nozione di solidarietà il cui riempimento spetterebbe al legislatore ordinario, laddove la solidarietà, per offrirne le due prime immediate declinazioni, diverrebbe espressione di egualitarismo fine a sé stesso o necessità del sacrificio della persona, per colmare anche involontarie e naturali disuguaglianze degli altri.

In questa prospettiva sarebbe agevole ipotizzare di “rendere obbligatoria la partecipazione a trial clinici organizzati da industrie farmaceutiche al fine di sperimentare farmaci per questa o quella malattia” o anche “rendere obbligatoria la cessione di organi, per esempio di un rene, tra viventi in nome del dovere di solidarietà nei confronti di soggetti che corrono un pericolo per la salute in assenza di espianto, tanto più che, si potrebbe sostenere, l’espianto di un organo come il rene non danneggerebbe la salute dell’espiantato che anzi in breve termine potrebbe tornare a vivere normalmente ed in piena salute” (così criticamente Negroni).

A questo argomentare si oppone in maniera convincente che la fonte e la giustificazione del trattamento sanitario obbligatorio è solo e soltanto il pericolo, attuale e concreto, non futuro ed ipotetico, per la salute collettiva, ovvero per un gruppo, per una categoria di persone la quale costituisca una collettività indeterminata e che, pertanto, in assenza di tale pericolo, il mero principio di solidarietà non sia in grado di giustificare alcun trattamento sanitario obbligatorio.

Questa decisa affermazione si fonda sulla lettura dell’articolo 2 della Costituzione come norma che, in ossequio all’impostazione delle moderne costituzioni, non consente “clausole aperte” o interpretazioni estensive riguardo ai doveri, ma solo riguardo ai diritti (in tal senso Modugno).

Ne consegue che laddove l’articolo 2 della Costituzione si riferisce ai doveri inderogabili, diversamente che dai diritti inviolabili, il richiamo è unicamente ai doveri che sono analiticamente previsti da altre norme ugualmente di rango costituzionale (il dovere di difendere la patria, il dovere di voto, il dovere di istruzione, il dovere di pagamento delle imposte).

Ritenere diversamente, ovvero che anche rispetto ai doveri l’articolo 2 rappresenti un catalogo a “fattispecie aperta”, sarebbe non solo in contraddizione con il carattere delle costituzioni liberali e democratiche, che nascono quali affermazioni di diritti, ma, inoltre, porrebbe i singoli in balia di interpretazioni fluttuanti e spesso affidate ad una maggioranza, giurisprudenziale, dottrinale, politica, sociale, che è proprio ciò da cui le costituzioni intendono e devono tutelare, ovvero porre argini al potere della maggioranza e tutelare la minoranza attraverso il riconoscimento di diritti inviolabili.

Uno stravolgimento della funzione di garanzia costituzionale che rimarrebbe tale…fino a quando la maggioranza lo consente.

La stessa qualificazione della salute in termini di diritto fondamentale, da diritto di libertà finirebbe per essere trasformata “in una situazione di soggezione, oltretutto mediante il generico riferimento a non meglio precisati e indeterminati doveri di solidarietà, potenzialmente incontenibili” (ancora così Negroni).

La questione circa l’espansione dei doveri di solidarietà, oltre i rigidi argini costituzionali, si colloca nel più ampio dibattito sui criteri interpretativi della Costituzione che vede fronteggiarsi, da un lato, per riprendere la tradizione impostazione anglosassone, i fautori della costituzione vivente (“living constitution”) ovvero coloro i quali ritengono che il compito dei giudici costituzionali sia di adeguare l’ordinamento giuridico al fine di garantire allo stesso una piena sintonia con la realtà sociale, anche e soprattutto di fronte all’inerzia del legislatore e, dall’altro, gli originalisti, secondo i quali i giudici costituzionali sono chiamati “a far dire alla costituzione quello che davvero essa dice” e non quello che si vorrebbe dicesse (in tal senso il Giudice Zanon).

Si comprende bene che la prima lettura comporta una riduzione degli spazi di democraticità e della effettività della rappresentanza elettorale, implicando un incerto e indefinito ruolo di adeguamento che non spetta al giudice ma ai parlamenti nazionali e, soprattutto, il fare dipendere scelte fondamentali della vita sociale da giudici non eletti, non responsabili e spesso neppure rappresentativi.

Un rischio dal quale il compianto Giudice Scalia della Corte Suprema statunitense ha più volte messo in guardia, ricordando che i giudici, anche quelli costituzionali, sono scelti non per le loro opinioni politiche, non per particolari doti morali, sia comportamentali che intellettuali, ma unicamente per le loro capacità tecnico-giuridiche.

Dal punto di vista della capacità di individuare “lo sviluppo sociale”, “la maturazione dei costumi” o la “realtà sociale”, nessun giudice può pretendere una capacità maggiore di qualunque cittadino.

Se il giudice costituzionale reclama, si arroga, pretende di esercitare tale compito entra in crisi non tanto il canone di interpretazione costituzionale quanto il principio di separazione dei poteri ed il principio democratico ad esso agganciato.

LA SOLIDARIETA’ COME PRETESO FONDAMENTO E GIUSTIFICAZIONE DELLA VACCINAZIONE OBBLIGATORIA

Occorre radicalmente negare che sussista nella Costituzione un principio di solidarietà che imponga trattamenti sanitari obbligatori, a generico favore di altri, così come Costantino Mortati negava che si possa “far ricorso, allo scopo di giustificare limiti ai diritti fondamentali, ad un generico principio di ordine pubblico all’infuori dei casi in cui la Costituzione lo richiama”.

L’inutilità, oltre che la pericolosità, del richiamo alla solidarietà appare evidente dalla lettura dello stesso articolo 32 della Costituzione, il quale delinea i due aspetti della salute, ovvero il diritto fondamentale del singolo e l’interesse della collettività, con la piana conseguenza che la limitazione della libertà di autodeterminazione sanitaria del singolo è giustificata solo ed unicamente in presenza di un pericolo, immediato e concreto, per la salute collettiva.

Al contrario un generico riferimento alla solidarietà potrebbe giustificare la vaccinazione obbligatoria:

– anche in presenza di percentuali di vaccinazione superiori a quelle indicate dalle autorità sanitarie, per il raggiungimento della c.d. immunità di gregge, perseguendo l’irrealistica finalità della vaccinazione totale ed assoluta dell’intero corpo sociale per la tutela “solidaristica” di ogni persona;

– per porre argine all’affollamento dei reparti ospedalieri da parte dei contagiati, di fronte all’incapacità del sistema sanitario a fronteggiare adeguatamente tale flusso e garantire cure adeguate;

– per evitare che le risorse finanziarie che il sistema sanitario utilizza per la cura dei contagiati siano sottratte alla cura di altre patologie.

Sono situazioni che non giustificano la vaccinazione obbligatoria, in quanto nel primo caso manca il pericolo attuale e concreto alla salute collettiva e negli altri casi (a prescindere da ogni valutazione circa l’efficacia e la sicurezza del vaccino) la vaccinazione obbligatoria sarebbe utilizzata per esigenze organizzative e di spesa che fanno capo alla pubblica amministrazione e che essa deve responsabilmente perseguire con politiche organizzative, di bilancio e fiscali.

Al fine di collegare la vaccinazione obbligatoria al principio di solidarietà si afferma che la vaccinazione comporta un significativo risparmio di risorse finanziarie, nella misura in cui evita l’ospedalizzazione, permettendo che altre patologie, non prevenibili con la vaccinazione, possano essere adeguatamente curate in ambito ospedaliero.

Pertanto, ci si chiede, perché opporsi all’obbligo vaccinale, sempre presupposto efficace e sicuro, se, attraverso il passaggio intermedio del risparmio di spesa, ne consegue la cura e la salvaguardia della vita e della salute di altre persone?

Si comprende bene che in questa logica la vaccinazione potrebbe essere estesa a qualunque patologia, anche non contagiosa, fondandosi interamente sul principio di solidarietà e sugli obblighi, anche in campo sanitario, che tale principio è in grado di generare.

Ipotizzare la vaccinazione obbligatoria anche per malattie non contagiose (da decenni la vaccinazione antitetanica è obbligatoria) non rappresenta un mero esercizio divinatorio, specie di fronte alla possibilità recentemente rappresentata della disponibilità di numerosi e nuovi vaccini, anche in ambito tumorale.

Premesso che il tumore non pare essere contagioso e che la cura dei tumori assorbe in misura rilevante personale, mezzi e denaro dell’apparato pubblico ed ammesso e concesso che tali vaccini possano, nel futuro, essere qualificati efficaci e sicuri, il richiamo alla solidarietà potrebbe imporre come obbligatoria la vaccinazione antitumorale, in quanto l’intera assistenza sanitaria trarrebbe significativo giovamento, dall’utilizzo delle risorse risparmiate, per la cura efficace di altre patologie.

Quindi, la sottoposizione a tali vaccinazioni costituirebbe adempimento del dovere di solidarietà nei confronti di coloro che si ammalano di altre patologie, non prevenibili con il vaccino o ancora prive di vaccino e che potrebbero essere meglio e più adeguatamente curati.

Perchè non si può imporre la vaccinazione obbligatoria per determinate patologie se questo permette di curare meglio le altre patologie per le quali, almeno allo stato, non esistono vaccini? Non sarebbe un’interessante applicazione del principio di solidarietà?

No, sarebbe una pericolosa e mistificatoria applicazione del principio di solidarietà.

Per garantire la salute dei singoli e di riflesso quella pubblica, lo Stato può utilizzare la leva fiscale, qualificandosi l’obbligo del pagamento delle imposte di cui all’articolo 54 della Costituzione quale dovere di solidarietà ai sensi del citato articolo 2, può organizzare diversamente il proprio apparato sanitario, può imporre norme di condotta e di cautela alle numerose attività dei singoli, ma non può imporre trattamenti sanitari obbligatori laddove non vi sia pericolo attuale e concreto alla salute collettiva.

Se poniamo mente alla moltitudine di norme che vengono imposte ogni giorno e che hanno incidenza sulla salute del singolo e della collettività, dagli obblighi di sicurezza in materia di lavoro agli obblighi di indossare il casco o allacciare le cinture di sicurezza, si comprende come il trattamento sanitario obbligatorio non costituisca né il primo, né il più importante strumento di tutela della salute, ma, soprattutto, è strumento assistito da una precisa garanzia costituzionale, in forza della quale il principio di autodeterminazione sanitaria non può essere eluso in nome di un richiamo alla solidarietà ma solo in presenza di un pericolo attuale e concreto alla salute collettiva.

Questa è l’unica situazione in presenza della quale è enucleabile un “dovere di curarsi”, altrimenti estraneo all’ordinamento giuridico il quale, invece, riconosce appieno il “il diritto a non curarsi”.

Si tratta ormai di un’acquisizione pacifica, nella legislazione, nella giurisprudenza e nella dottrina, che si fonda sullo stesso articolo 32 della Costituzione e sulla legge 219/2017. In questa sede non interessa analizzare i profili di criticità che tale riconoscimento presenta e soprattutto le sue tristi derive nell’ambito del suicidio assistito oggi e, temiamo, dell’omicidio del consenziente domani, ma sottolineare che sul piano della libertà di cura il diritto della persona è inviolabile ed è stato grave che sia stato leso dalla prescrizione della vaccinazione obbligatoria, peraltro sulla base di una mera autorizzazione all’ammissione in commercio condizionata, ma lo sarebbe ancora di più se lo fosse per un generico e malinteso principio di solidarietà.

Merita un cenno, infine, la perfida applicazione all’ipotesi di mancata vaccinazione e successivo contagio del principio di autoresponsabilità, ovvero, detto semplicemente, che ciascuno sia tenuto a sopportare le conseguenze delle proprie azioni.

La leva fiscale può evidentemente essere utilizzata dallo Stato per sopperire alle necessità sanitarie ma non è proponibile e mai lo è stato, tranne che recentemente in alcuni talk-show ed in imprudenti dichiarazioni, che il diritto alla cura, dotato di carattere assoluto sia verso i singoli che verso lo Stato, sia condizionato nella sua concreta pretesa all’avere accettato di sottoporsi ad un trattamento sanitario, obbligatorio o anche solo raccomandato, il che sarebbe identico al condizionare la fruizione dell’assistenza sanitaria al non avere tenuto un determinato comportamento al quale sia causalmente riconducibile la patologia per la quale si chiede l’intervento della sanità pubblica.

Ripetendo esempi meglio articolati da altri, sarebbe come non curare il tumore al polmone al fumatore, la malattia sessualmente trasmissibile a chi ha intrattenuto rapporti plurimi e “non protetti”, gli effetti delle sostanze stupefacenti al tossicodipendente, prefigurando, anche in tempi brevi, non solo uno Stato etico che regolamenta la vita di ognuno e ne sanziona le violazioni negando l’assistenza sanitaria, ma uno Stato che, praticamente, non curerebbe alcuno, se è vero che quasi tutte le malattie hanno causa, o almeno concausa, nel comportamento personale e, anche qualora tale comportamento rivestisse carattere di involontarietà, alla persona si potrebbe sempre addebitare negligenza e mancata informazione.

Non sarebbe estraneo un rimprovero anche in forza del principio di solidarietà, il quale imporrebbe alle persone di organizzare la propria vita e tenere comportamenti adeguati all’organizzazione sociale, volti comunque ad impedire lo spreco di risorse pubbliche che possono sempre essere utili per aiutare qualcuno, individuato dal potere politico attraverso parametri anche fortemente ideologici.

Resterebbero fuori le malattie genetiche? Qualche dubbio è lecito se si considerano le indiscutibili “colpe” dei genitori che non hanno eseguito gli ormai facilmente disponibili test durante la gravidanza e, in caso di esito positivo, non hanno fatto ricorso all’aborto.

Non si tratta peraltro di considerazioni astratte ma di riferimento a concreti dibattiti del mondo reale, come reso palese dalle politiche adottate da alcuni paesi europei, cc.dd. Down free, ovvero dirette ad impedire la nascita di bambini affetti dalla Sindrome di Down, mettendo a disposizione dei genitori tutti gli opportuni esami per diagnosticare la presenza della malattia e facilitando l’accesso all’aborto.

Orbene, ci si domanda in tali Paesi, se i genitori decidono, nonostante tutta l’ostilità che li circonda, di fare nascere il bambino affetto dalla Sindrome di Down, deve poi la collettività farsi carico dei costi elevati e per tutta la vita del bambino relativi alla cura ed all’assistenza o non dovrebbero, piuttosto, tali costi fare carico a chi ne è stato causa?

In tale ragionamento, la cui disumanità emerge prima ancora dell’inconsistenza giuridica, è evidente il riferimento alla collettività che sarebbe chiamata a sopportare i costi, alle risorse non utilizzate in maniera più adeguata (chissà quali), al disinteresse ed alla insensibilità verso la collettività dimostrati dai genitori.

Riaffiora l’aspetto collettivistico del principio di solidarietà, un principio molto preoccupato all’”umanità”, astratta e distante, di cui si celebrano le “magnifiche sorti progressive” e poco attento agli “uomini”, concreti e vicini, spesso ostacoli da sacrificare, oggi sull’altare di una vaccinazione obbligatoria della quale non si conoscevano e non si conoscono gli effetti a medio e lungo termine, ma iniziano a intravedersi con preoccupazione quelli a breve.

Un principio di solidarietà che impone la sperimentazione di massa di nuove terapie vaccinali che hanno l’ambizioso e proclamato obiettivo di liberare l’uomo dalle malattie e che terminano con l’obbligo di non nascere o di morire per non costituire un peso inutile ai viventi, tutti per definizione giovani e sani.

E’ una declinazione della “solidarietà” che spaventa, anche per chi l’ha sempre considerata una sorta di riflesso laico della “carità”, ma forse non è la solidarietà a cambiare natura ma è l’uso della parola che ne viene fatto, una distorsione ed una perversione del linguaggio che usa, anzi abusa, delle parole per poi riempirle di contenuti di male e di ingiustizia.

Una solidarietà che prefigura un mondo senza cura e senza malati, ma anche senza vera umanità e devastato nelle relazioni personali. In questa prospettiva siffatti accenni alla solidarietà configurano una vera e propria “finestra di Overton” che deve essere subito richiusa, anzi sigillata!

LA SOLIDARIETA’ COME GIUSTIFICAZIONE DELL’INDENNIZZO PER EFFETTI AVVERSI

Le preoccupazioni che sono suscitate dall’utilizzo dell’asserito dovere costituzionale di solidarietà nell’ambito dei trattamenti sanitari devono essere messe a confronto con la rigorosa lettura della giurisprudenza costituzionale.

Occorre prendere le mosse dalla sentenza 307/1990 la quale ha rappresentato un punto fondamentale nell’elaborazione dei tratti costituzionali della vaccinazione obbligatoria.

Con tale sentenza la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della legge 51/1966, relativa alla vaccinazione antipoliomelitica, nella parte in cui non prevedeva a carico dello Stato un’equa indennità per il danno derivante da contagio o da altra malattia riconducibile alla vaccinazione obbligatoria antipoliomelitica.

Come è noto la Corte ha progressivamente esteso nel tempo l’obbligo di indennizzo dalle vaccinazioni obbligatorie alle vaccinazioni anche solo raccomandate.

Con la sentenza 307/1990 la Corte afferma in maniera cristallina che il principio di autodeterminazione sanitaria può essere compresso attraverso l’imposizione di un trattamento sanitario obbligatorio solo se il trattamento “è diretto…a preservare lo stato di salute degli altri, giacchè è proprio tale ulteriore scopo, attinente alla salute come interesse delle collettività, a giustificare la compressione di quella autodeterminazione dell’uomo che inerisce al diritto di ciascuno alla salute in quanto diritto fondamentale”.

La solidarietà non ha, pertanto, rilevanza nella fase dell’imposizione del trattamento sanitario obbligatorio, per quanto concerne i requisiti che la Corte fissa in maniera che verrà spesso e anche apoditticamente ripetuta nella giurisprudenza successiva, ovvero:

– che il trattamento sia diretto a migliorare o a preservare lo stato di salute di chi vi è assoggettato, ma anche a preservare lo stato di salute degli altri;

– che il trattamento non incida negativamente sullo stato di salute di chi vi è assoggettato, salvo che per quelle sole conseguenze che, per la loro temporaneità e scarsa, entità, appaiono normali di ogni intervento sanitario e, pertanto, tollerabili.

Nell’ipotesi di ulteriore danno alla salute del soggetto sottoposto al trattamento sanitario, ovvero “lesioni o infermità dalle quali sia derivata una menomazione permanente della integrità psico-fisica”, come recita l’articolo 1 della legge 210/1992, la Corte “colora” di solidarietà quello che per il singolo è un obbligo, una sorta di solidarietà “coartata”.

Infatti il ruolo della “solidarietà” non si colloca nell’ambito dei requisiti richiesti per la legittimità costituzionale del trattamento sanitario obbligatorio, ma è il fondamento del diritto all’indennizzo che spetta al singolo per gli effetti avversi, lesivi della salute e conseguenti alla vaccinazione obbligatoria o raccomandata.

Tra la “solidarietà” del singolo e la “solidarietà” della collettività vi è radicale diversità:

– la “solidarietà” del singolo opera a livello di intenzione meramente soggettiva, di motivo giuridicamente irrilevante; il singolo può vaccinarsi per solidarietà nei confronti delle persone a lui vicine o appartenenti ad una collettività più o meno ampia (lavoro, ambito territoriale in cui vive, l’intero territorio della Repubblica italiana) o per tutela esclusivamente della propria salute, in tutte le ipotesi trattandosi di finalità indifferenti per l’ordinamento giuridico e per le sanzioni e le conseguenze giuridiche che all’adempimento o meno dell’obbligo di vaccinazioni si ricollegano;

– la “solidarietà” per la collettività è fondativa dell’obbligo di indennizzo, perchè “oggettivamente” il singolo attraverso la vaccinazione ha reso un servizio alla collettività e questa deve farsi carico delle conseguenze che incidono sulla vita del singolo, in quanto l’effetto avverso altro non è che la lesione del diritto alla salute del singolo e tale lesione deve essere indennizzata da chi quella lesione ha prodotto, ovvero la collettività.

La collettività indennizza il danno alla salute perchè essa vi ha dato causa imponendo la vaccinazione obbligatoria.

Non sussiste, pertanto, alcun carattere speculare tra le due forme di “solidarietà”, agendo la prima nel foro interno dell’individuo e la seconda sul piano oggettivo e giuridico.

Da questo punto di vista la disciplina dell’indennizzo, laddove, a differenza dell’ordinaria azione per il risarcimento del danno ingiusto, prescinde dall’accertamento dell’elemento soggettivo della colpa, si limita a trarre una piana e ragionevole conseguenza dal principio di autoresponsabilità: se la collettività, attraverso la legge impositiva, ha decretato un obbligo a carico del cittadino è doveroso che risponda dei danni conseguenti e, forse, non si comprende la limitazione di responsabilità quanto all’ammontare dell’indennizzo ed alla natura permanente dei danni, perché esonerare la persona danneggiata dall’onere di provare l’elemento soggettivo della colpa non costituisce una “graziosa concessione”, ma una logica e piana conseguenza dell’obbligatorietà del trattamento sanitario.

Si comprende anche come porre sullo stesso piano la solidarietà del singolo e quella della collettività rappresenti una pericolosa commistione tra le valutazioni giuridiche e quelle morali, interiori, soggettive, perpetuando una pericolosa tendenza “etica” del giudice: il problema non è quello del fondamento delle norme giuridiche, il problema è quello del giudice che diventa arbitro del bene e del male, a prescindere dalla norma di legge.

La legge sull’indennizzo appare evidente alla luce del principio generale del “neminem laedere”: quale può essere la giustificazione per lo Stato che attraverso la legge impone un trattamento sanitario obbligatorio e poi ritiene di essere esentato da ogni responsabilità per le conseguenze o che pone a carico del singolo danneggiato l’onere di dimostrare che quella scelta vaccinale è stata dettata da negligenza, imprudenza, imperizia?

Se la solidarietà non ha un ruolo nell’individuazione dei presupposti che legittimano l’obbligo vaccinale, si potrebbe addirittura prospettare la tesi che non abbia alcun ruolo anche nel porre a carico della collettività l’obbligo di indennizzo, perchè tutta la disciplina si colloca nell’articolo 32 della Costituzione e nei principi generali dell’ordinamento giuridico, diremmo di ogni ordinamento giuridico che intende essere giusto, responsabile e razionale.

Per concludere sul punto si può affermare che è indifferente per quale motivazione, egoistica od altruistica, il singolo si sottopone al trattamento sanitario obbligatorio e che la collettività paga il danno, si potrebbe aggiungere l’intero danno, che il trattamento ha cagionato al cittadino, quando e solo quando sia dimostrato che il danno è conseguenza del trattamento sanitario obbligatorio, nessun altro elemento dovendo venire in considerazione.

L’analisi della giurisprudenza costituzionale induce a ritenere che il richiamo al principio, rectius dovere, di solidarietà, abbia assunto nel tempo un carattere vago, generico, una ripetizione che presta ossequio ad una sorta di canone estetico, ma superficiale e privo di aggancio reale, sia con la fattispecie concreta che con il dato normativo.

Il punto è che il richiamo alla solidarietà, come già accennato, è partorito dalla Corte costituzionale con la sentenza 307/1990 che impone al legislatore di prevedere l’indennizzo per i danni da vaccino.

È interessante notare, con riferimento alla citata sentenza 307/1990, che il parametro costituzionale invocato dal giudice a quo è l’articolo 32, ma il cuore motivazionale della sentenza della Corte è il riferimento alla solidarietà, da intendere “reciproca”, pur non essendo dubbio che la questione all’esame della Corte non riguarda in alcun modo la solidarietà del singolo ma quella di cui deve farsi carico la collettività. La Corte non richiama in alcun modo l’articolo 2 della Costituzione, dove la parola “solidarietà” compare a chiare lettere, ma muovendosi all’interno del citato articolo 32 evoca la solidarietà.

Si rimane perplessi quanto al dovere di solidarietà gravante sul singolo per le considerazioni già svolte ed appare un vuoto richiamo l’affermazione “che in nome della solidarietà verso gli altri ciascuno possa essere obbligato” al trattamento sanitario. Il richiamo alla solidarietà è generico, il singolo deve vaccinarsi, per usare un’espressione netta, per la salute della collettività, lo voglia o non voglia, sia animato o meno da spirito di solidarietà, intenda vaccinarsi per una delle tante ragioni, nobili o meno nobili, che possono albergare nel suo animo e che restano del tutto sconosciute al giudice.

La solidarietà è una sorta di vuota sovrastruttura, che non svolge alcun ruolo prescrittivo, il cui richiamo omaggia un termine carico di implicazioni morali ed anche religiose ma giuridicamente, almeno sulla questione dei trattamenti sanitari obbligatori, privo di rilevanza alcuna.

La Corte continuerà nella sua giurisprudenza ad utilizzare il richiamo alla solidarietà, particolarmente laddove procederà ad allargare l’ambito dell’indennizzo:

– nella sentenza 118/1996 la Corte ribadisce l’inderogabile dovere di solidarietà che incombe sull’intera collettività laddove quest’ultima tragga beneficio dal trattamento vaccinale del singolo;

– nella sentenza 268/2017 la Corte afferma che la ratio dell’indennizzo non deriva dall’essersi sottoposti a un trattamento obbligatorio in quanto tale (non si comprende perché, se ne è derivato un danno, lo Stato, che quel trattamento ha imposto, possa andare esente da responsabilità, a meno di ipotizzare Stati totalitari che non rispondono di niente ed a nessuno dei loro comportamenti), ma che risiede nelle esigenze di solidarietà sociale che si impongono alla collettività laddove il singolo subisca conseguenze negative per la propria integrità psico-fisica da un trattamento sanitario (obbligatorio o raccomandato) effettuato anche nell‘interesse delle collettività (aggiungendo, comunque, a prescindere dall’intenzione del singolo);

–  nella sentenza 268/2017 la Corte si spinge ad ipotizzare un ”patto di solidarietà tra individuo e collettività in tema di diritto della salute e che si completa nell’indennizzo (non pare possa sussistere un “patto” laddove una parte sia obbligata a comportarsi come deciso unilateralmente dall’altra, trattasi di “patto” non proprio conforme ai requisiti del consenso contrattuale);

– nella sentenza 118/2020 la Corte individua la ragione che fonda il diritto all’indennizzo sul necessario adempimento che si impone alla collettività del dovere di solidarietà (la solidarietà invocata appare il fondamento dell’obbligo di indennizzare i danni, ma nel dovere di neminem laedere non c’è alcuna solidarietà, vi è solo un principio di giustizia).

Può darsi che sul punto la Corte sia, se non una cattiva maestra, per lo meno una maestra confusa, ma appaiono ancora più pericolosi gli allievi, come il Consiglio di Stato che nella sentenza 7045/2021 prende una china pericolosa, che intende supportare le proprie argomentazioni con il richiamo alla sentenza della Corte costituzionale 75/1992, del tutto fuori luogo, se si considera che la pronuncia riguarda l’attività di volontariato, ovvero una solidarietà non imposta ma espressione di libera scelta.

Tralasciando questa fondamentale e ovvia distinzione, il Consiglio di Stato afferma, con riferimento alla vaccinazione obbligatoria che “la solidarietà è la base della convivenza sociale normativamente prefigurata dalla costituzione”.

Si ripresenta la solidarietà come superprincipio costituzionale, al quale si è già accennato in chiave critica e che rappresenta uno dei tratti, non l’unico, di una sentenza che non solo strumentalizza la giurisprudenza costituzionale (si consideri il richiamo, a parti invertite, al “diritto tiranno”) ma anche stravolge il principio di cautela, deformandolo in principio che consente anche ardite e pericolose sperimentazioni farmacologiche.

LA SENTENZA 14/2023: LA SOLIDARIETA’ NON “SFONDA” E RIMANE CONFUSAMENTE PERICOLOSA

Questa linea, devastante quanto al diritto di autodeterminazione sanitaria della persona ed all’affermazione di una discrezionalità sostanzialmente senza limiti in capo al legislatore, non è accolta dalla sentenza 14/2023 della Corte costituzionale. Pur nella convinzione che tale sentenza non sia condivisibile negli esiti, nella motivazione e nella parte in cui ricostruisce lo stato della “scienza” in termini di acquisizioni fattuali ed argomentazioni sostenute, occorre riconoscere che in punto “solidarietà” le affermazioni della Corte non aggiungono nulla, confermano la sostanziale irrilevanza del principio in tema di trattamenti sanitari obbligatori pur mantenendo ed anzi alimentando un profilo di fumosità.

Sono due gli ambiti della sentenza nei quali si richiama il “principio di solidarietà”.

Il primo è il punto 5.1 dove la Corte richiama la propria sentenza 75/1992, la stessa menzionata dal Consiglio di Stato nella sentenza 7045/2021, esponendosi alla medesima critica, ovvero che si trattava di sentenza resa nell’ambito del volontariato, ambito difficilmente accostabile a quello dei trattamenti sanitari obbligatori.

Che questo principio di solidarietà appaia “centrale” in ambito sanitario è affermazione priva di alcun rilievo pratico avendo la Corte sempre e costantemente enucleato i requisiti che legittimano il trattamento sanitario obbligatorio, senza mai ricomprendere una vaga quanto indistinta solidarietà.

La persona, diversamente da quanto afferma la Corte, non può “in nome di esso e quindi della solidarietà verso gli altri”, essere obbligata ad un determinato trattamento sanitario, perché, lo si ripete, la disciplina del trattamento sanitario obbligatorio, quanto ai suoi presupposti è tutta e solo nell’articolo 32, altra essendo la questione del rapporto tra la sussistenza dei presupposti che legittimano il trattamento e gli altri diritti costituzionali coinvolti, laddove, come la recente esperienza, il trattamento stesso è diventato requisito per l’esercizio di diritti costituzionali.

E allora: perchè non è stata data rilevanza alla solidarietà nei confronti dei lavoratori sospesi per mancata vaccinazione e privati di ogni e qualsiasi emolumento e non in grado di fare fronte a bisogni essenziali quali la casa ed il cibo?

Oppure la “base della convivenza sociale” opera solo laddove i soggetti coinvolti sono ritenuti meritevoli dal legislatore in base a valutazioni talmente discrezionali da sfociare nell’arbitrarietà?

Il principio di solidarietà, occorre riconoscere, si presta ad un utilizzo caratterizzato da eccessiva disinvoltura, specialmente laddove intenda delineare un “elenco aperto” di doveri in capo ai singoli, ai quali non corrisponde un adeguato e doveroso impegno da parte dell’apparato pubblico.

Eppure la Corte, che pareva essere partita bene, proprio fondando l’obbligo di indennizzo in capo alla collettività, pare terminare in maniera insoddisfacente, fondando l’obbligo di solidarietà prevalentemente in capo al singolo, in una pericolosa deresponsabilizzazione del legislatore dell’apparato pubblico.

Il secondo è il punto 7 della sentenza laddove, probabilmente, l’autorevole estensore ha preso consapevolezza che il precedente richiamo alla solidarietà era abbastanza vuoto e privo di incidenza e, sempre forse, si è reso conto che la motivazione aveva necessità di altri supporti. Ed allora, in questa cronaca che vuole essere sempre rispettosa del supremo consesso giudiziario, dallo strumentario costituzionale estrae, direbbe Camilleri, il “carico da undici” costituito dall’articolo 2 della Costituzione.

Questo richiamo non solo non aggiunge alcunchè all’impianto motivazionale della sentenza ma laddove la Corte afferma che “l’interesse della collettività di cui all’articolo 32 Cost. costituisce la declinazione, nel campo della tutela alla salute, dei doveri di solidarietà di cui all’art. 2 Cost.”, pare confermare:

– che la disciplina del trattamento sanitario obbligatorio è nell’ambito dell’articolo 32 della Costituzione;

– che l’articolo 2 della Costituzione è un elenco chiuso di doveri di solidarietà;

– che l’interesse alla salute collettiva prevale sul diritto di autodeterminazione del singolo, come eccezione rispetto alla regola;

– che dall’articolo 2 della Costituzione non scaturisce alcun obbligo di sottoposizione a trattamenti sanitari che non sia giustificato dal pericolo attuale e concreto di danno alla salute collettiva;

– che la solidarietà non esplica al ruolo autonomo ed aggiuntivo.

Si perviene, pertanto, al depotenziamento del principio di solidarietà in ambito sanitario, ma proprio dalla lettura completa del paragrafo 7 permangono perplessità.

Dietro l’apparente linearità, financo innocenza, di espressioni quali “solidarietà orizzontale che lega ciascun membro della comunità agli altri consociati” o “i doveri inderogabili a carico di ciascuno sono infatti posti a salvaguardia dei diritti degli altri”, emerge una considerazione dei diritti e dei doveri costituzionali sullo stesso piano, il che non pare condivisibile: le costituzioni liberali e democratiche, categoria alla quale appartiene quella italiana, hanno la funzione precipua di affermare diritti ed i doveri sono posti, sempre a livello costituzionale, in chiave di eccezione ai diritti, quindi non è un bilanciamento tra eguali, ma tra la regola e l’eccezione, quest’ultima da interpretare restrittivamente e con divieto di interpretazione analogica.

A rigore il bilanciamento è tra diritti, non tra diritti e doveri, fungendo questi ultimi da limite ai singoli diritti e l’interesse collettivo alla salute è limite, rigoroso e specifico, al diritto di autodeterminazione sanitaria. L’abbandono di questa ferma impostazione ermeneutica conduce ad essere dubbiosi e perplessi di fronte a generiche affermazioni quali “al legislatore tocca bilanciare queste situazioni soggettive e a questa Corte assicurare che il bilanciamento sia corretto”: la Corte non “bilancia” un limite al diritto, interpreta con rigore il limite al diritto, perché questo è il suo compito, interpretare la Costituzione per come essa è e lasciare al Parlamento le modifiche anche di rango costituzionale, altrimenti la “correttezza del bilanciamento” diventa un potere pericoloso affidato ad un giudice non responsabile le cui sentenze sono inappellabili ed i cui giudici non godono di alcuna investitura popolare.

Milano, 7 giugno 2023