Et erit opus iustitiae pax

Iustitia in Veritate non può dimenticare che opus iustitiae pax.

In questa confusissima situazione, in cui all’emergenza sanitaria si sostituisce, in maniera repentina, l’emergenza geopolitica, occorre riuscire a porsi qualche domanda. E bisogna oltrepassare la cortina fumogena che, con strabiliante tempestività, la grande comunicazione e l’intero apparato della pubblica opinione, ad iniziare dagli interventi governativi, hanno gettato su ciò che sta accadendo. Su questo, mi limito a notare che ulteriori strappi sono stati apportati al nostro impianto costituzionale, dal momento che su questioni di politica estera di capitale importanza il primo a dover esprimersi e dare indicazioni e direttive è il Parlamento. Aggiungo che anche a livello di Unione europea è sorprendente che un’istituzione che non ha una sua forza militare, né fa parte di una qualche alleanza, intervenga a favore di una delle parti. Insomma, se con l’emergenza sanitaria abbiamo assistito, allibiti ed impotenti, alla distruzione dell’ordinamento giuridico e degli assetti politici interni, ora stiamo assistendo, altrettanto impotenti, all’eversione del diritto internazionale e di quello di enti sovranazionali come la UE. Altrettanto sconvolgente è che lo stesso fenomeno di ipnosi di massa, che impedisce di vedere alcunché con chiarezza, si sta rapidamente riproducendo. Ripeto, non si tratta di scivolare in una qualsiasi forma di complottismo e tantomeno di prendere posizione tra le parti in conflitto. Non è compito mio, tanto più che neanche le alleanze internazionali dell’Italia, a partire dalla NATO, si possono dire, giuridicamente, parti in causa. Nessun paese NATO è stato aggredito e quindi l’alleanza, che è difensiva, non è in questione. Ma tutto ciò sembra non superare la soglia dell’attenzione di nessuno, o quasi. Anche negli anni immediatamente precedenti la seconda guerra mondiale, le diplomazie operavano intensamente ed anche se hanno fatto degli errori, hanno tentato a lungo di evitare il conflitto. Ora, invece, la logica del diritto internazionale e sovranazionale, e con esso le diplomazie, sono semplicemente azzerate.

Presi nelle maglie della propaganda, di un sistema informativo che sta riproducendo le metodologie martellanti ed ipnotiche usate per l’emergenza sanitaria, schiacciati dalle prospettive che la guerra può aprire e dalle sue facili strumentalizzazioni, che cosa possiamo pensare?

Allora, da quali domande partire nella situazione attuale? Penso si debba ripartire dal famosissimo detto: «et erit opus iustitiae pax» (Is., 32, 17)[1], che si può tradurre: «la pace è l’opera della giustizia». Ed il passo di Isaia continua «et cultus iustitiae silentium et securitas usque in sempiternum» (Is. 32, 18)); il frutto del diritto, inteso come forma di vita, sarà il silenzio, la tranquillità e la disposizione di ascolto di Dio e la sicurezza perenne. Apparentemente tutte cose in linea con le ansie pacifiste dei nostri contemporanei ma in realtà virtù, atteggiamenti, modi di porsi di fronte al mondo ed ai suoi problemi profondamente diversi. Anche i punti di riferimento, i frutti della giustizia vanno capiti in modo molto diverso dall’assenza di violenza, dall’affermazione di condizioni di tranquilla cooperazione internazionale e del conseguente, auspicato benessere generalizzato.

L’opus iustitiae pax non è il fine della sterilizzazione delle spinte conflittuali o delle loro conseguenze distruttive. Quell’opus, insieme opera, lavoro e frutto, è perseguibile e sperabile solo come dilatarsi della verità nella vita degli uomini e nella società. Ma cosa può mai significare ciò, in un mondo che si è consegnato mani e piedi alla postverità, ossia alla percezione soggettiva dei fatti e, conseguentemente, alla menzogna ad ogni livello della comunicazione? Vivere nella postverità e nella giustizia immaginaria che ne è il corollario, il coerente sviluppo, significa non tanto dire qualche bugia, nascondersi dietro qualche piccola manipolazione della verità dei fatti e delle relazioni umane. Vivere nell’apparenza della postvertià significa in primo luogo dissociarsi dalla realtà e, proseguendo, avanzare la micidiale pretesa di abolire la realtà. Siccome, però, qualcosa deve pur esserci, questo significa, ulteriormente, sostituire la realtà con un qualcosa di profondamente adulterato, con qualcosa che dice di essere reale, ma ne è il completo capovolgimento. Non è questo l’esito, se non obbiettivo dell’intero apparato istituzionale e comunicativo che tenta di silenziare completamente i fatti, per sostituirvi la sua narrazione? Vietando in maniera coercitiva, all’occasione anche violenta, ogni forma di dissenso?

Il problema, però, è che ora parlano le armi e qualcosa di reale, di molto reale, può uccidere gli esseri umani e lacerare le nostre società. Ma e di nuovo, cosa vuol dire, allora, che il frutto della giustizia è la pace e che la giustizia è strettamente legata al vivere nella verità? Non significa forse che bisogna farla finita con tutte le operazioni di mascheramento della realtà, cosa in cui eccelliamo sia come individui che come sistemi sociali? Non significa forse ritornare alla semplicità di saper ascoltare gli altri, di parlare senza doppi fini e, prima ancora, di reimparare la grande virtù dell’umiltà di fronte al mondo, agli altri, e prima di tutto, al nostro Creatore e Redentore? Crediamo davvero di poter riottenere la pace solo con tecniche di controllo dei rapporti di forza? E di controllo delle coscienze, ossia del loro addormentamento con l’ipnosi di massa e la promessa di aver mano libera nel coltivare vizi e violenze sconvolgenti nella nostra vita “privata”, ossia nel raggio di azione diretta delle nostre vite? Ed a livello governamentale, crediamo davvero che si possa perseguire un ordine che porti come suo frutto la duraturo silentium, ossia la pacifica convivenza tra gli uomini e le nazioni, assumendo come unica unità di misura l’economia finanziarizzata, ossia il profitto che galleggia sull’usura universale? L’abolizione della storia, che è un passaggio ed un punto di arrivo necessario di questo processo, è necessaria perché solo chi è schiacciato interamente sul suo presente, ossia sui circuiti della sua immaginazione ed alla fine del suo egoismo, è pienamente dominabile e controllabile. Ossia quell’individuo emancipato da ogni divinità terrestre e celeste, è pronto per essere inghiottito e digerito dal nuovo ordine mondiale.

Crediamo forse che quella duratura securitas possa essere l’esito dello schiacciamento politico e militare del nemico, nemico ormai identificato apriori, in automatico, con che ancora osa proclamare che senza verità non c’è giustizia e senza la loro endiadi non c’è ordinata e feconda libertà politica, culturale e religiosa? E, per chiudere, non vediamo che l’abolizione della verità, con l’espulsione della giustizia e l’aborto di ogni autentica pace, conduce inevitabilmente al più efferato dei totalitarismi? Quello in cui l’uomo non potrà più nemmeno dire: io sono e sono perché quell’Unico che con piena verità ha potuto dire “Io sono” è diventato l’unico vero impresentabile clandestino della nostra epoca?

Insomma, vivere nella verità, fare della giustizia nella verità uno dei fari della nostra vita, richiede, con forza, riprendere in mano le nostre coscienze, con tutti i loro limiti e il grande richiamo alla responsabilità che la coscienza sempre ci mette davanti. Ma quella coscienza si potrà riaprire alle proprie profondità, solo se accetterà che nel suo punto più profondo, e sopra quel punto, abita, indomabile, la Verità di Dio.

Dionigi


[1] “La pace è l’opera della giustizia ed effetto della giustizia sarà la pace, frutto del diritto una perenne sicurezza». Il detto Opus iustitiae pax fu anche scelto da Eugenio Pacelli, futuro Pio XII, come suo motto episcopale e poi pontificale. Pacelli fu consacrato vescovo il 13 maggio 1917.